20 gennaio 2007

Postfazione a "La filosofia di Jean Lacroix" (2006)

Viviamo in un'epoca narcisista, dove vige la proibizione della sofferenza, delle sensazioni, dell'autocontrollo. Dove l'insensibilità verso lo spirito si esprime al meglio attraverso il super-uso di antidepressivi, attraverso la narcomania medica.
Così Meletis Meletiadis esprime la sua visione del mondo contemporaneo.
Il filosofo e psicanalista Miguel Benasayag, insieme a Gérard Schmit, scrive nel mirabile "L'epoca delle passioni tristi",
... non interessa affatto cercare di comprendere il messaggio o la difficoltà esistenziale che si nascondono dietro al sintomo o in un comportamento, perchè quel che conta è diventare un lupo performante, dominare tutto, comprese le proprie pulsioni, non nel senso proposto dagli ideali di saggezza di molte filosofie, ma per canalizzarle ai fini di una vita produttiva e utilitarista.
Visioni, queste, che, condividendole, esprimo attraverso il concetto di oscillazione dalla progettualità del sè alla dittatura dell'altro-da-sè.
È con questa consapevolezza che ho ripreso il lavoro di un filosofo personalista come Jean Lacroix per ritornare sul tema del soggetto, del suo rapporto con l'essere-nel-mondo che lo caratterizza e con i sistemi fondativi del suo stesso essere-nel-mondo.
Per fare ciò è, a mio parere, necessario riconsiderare il rapporto tra soggetto e fenomeno proprio dell'esistenzialismo e l'opposizione a questa relazione operata dal personalismo (principalmente proprio da quello di Lacroix) per provare a trovare una ricetta positiva che restituisca maturità al rapporto tra soggetto e realtà.
Da una parte, infatti, troviamo l'approccio fenomenologico dell'esistenzialismo per il quale il soggetto è fenomeno, è essere-gettato-nel-mondo e, in quanto tale, acquisisce il senso che l'altro-da-sè gli attribuisce.
Dall'altra parte troviamo l'approccio personalista di Lacroix per il quale il soggetto è persona in quanto dotato di progettualità e il cui agire esige la fede.
Non in mezzo ma oltre queste due visioni situo la mia proposta secondo la quale il soggetto deve sapersi liberare dalla sua fenomenicità per riqualificarsi come progettualità.
La liberazione dalla fenomenicità non avviene, però, sfuggendola ma, al contrario, riconquistandola in quanto tale.
Confrontandosi, in altri termini, con l'altro-da-sè senza perdersi nell'altro-da-sè e considerando ciò che del sè è altro-da-sè.
Solo il confronto consente, a mio parere, la ricostruzione (o costruzione) progettuale, riportando il soggetto alla soggettività e difendendolo da una oggettività invasiva e invadente.
Riportandolo alla condizione di un io che si afferma come sè.
In questo percorso non si può sfuggire al rischio dell'insuccesso che perde la sua valenza rischiosa e angosciante per diventare un'opportunità.
Una sorta di specchio, di bocca della verità, di alter ego critico.
L'insuccesso è proprio dell'uomo autentico, della persona che
indica ognuno di noi come essere multiplo, intessuto di molteplicità e che accetta il fatto di non conoscere i propri limiti e la propria molteplicità.
Uomo autentico che giustifica la consapevolezza della propria continua evoluzione.
Ma non c'è consapevolezza senza critica e, in positivo, c'è consapevolezza laddove c'è sincerità.
Dove c'è consapevolezza e sincerità c'è autenticità che, in quanto caratteristica esistenziale determinantesi dall'agire dei due primi elementi, si esperisce nel movimento di presa di coscienza di sè come slancio.
L'insuccesso, dunque, lo interpreto come riscontro alla sincerità; come accadimento dell'agire legato alla capacità di affrontare.
È questa la problematica esistenziale fondamentale per l'uomo contemporaneo privato degli strumenti per affrontare una vita autentica.
Privato, cioè, della sincerità e della consapevolezza.
Per Lacroix, l'insuccesso è una sorta di non-essere all'interno del volere.
Attraverso l'insuccesso si può giungere alla (o ci si può porre nel cammino verso la) verità come identità di intenzione e atto, di idea ed esistenza.
Lacroix interpreta la tematica dell'insuccesso secondo la doppia chiave di lettura psicologica e filosofica. Se volessimo schematizzare questi percorsi, potremmo dire che, dal punto di vista psicologico, l'insuccesso è al centro dell'esistenza e predispone alla consapevolezza della continua evoluzione della persona che vuole giungere alla sincerità come identità di essere e sembrare.
Dal punto di vista filosofico, l'insuccesso è al centro della riflessione che si esprime in una filosofia dei limiti, in un continuo sforzo di conoscenza che porta alla verità come identità di intenzione e atto.
L'insuccesso è obiezione radicale a ogni filosofia concepita come sapere assoluto; è filosofia dei limiti.
La filosofia, quindi, come filosofia della verità, si esprime nella definizione dei gradi del reale e nella distinzione/separazione tra pseudo-reale e reale autentico.
Come condizione di sviluppo verso l'autenticità.
Ma se l'insuccesso è proprio dell'uomo autentico e, in quanto obiezione radicale a ogni filosofia come sapere assoluto, è condizione di consapevolezza, allora il dubbio è il motore che spinge l'obiezione radicale.
Il dubbio è lo sforzo di separare il giudizio dal suo contenuto, il soggetto dall'oggetto, in maniera tale che il soggetto possa distinguersi dall'oggetto invece di aderirgli e fare tutt'uno con esso.
Il dubbio, come separazione di soggetto e oggetto, determina la coscienza del proprio esistere.
Prima del dubitare si vive nel campo delle apparenze, della vertigine, della malafede.
La domanda, a questo punto, è se una visione fenomenologica dell'esistente possa avere anche minimamente a che fare col dubbio.
O se, al contrario, il dubbio sia condizione e carattere primario dell'essere progettuale, della persona.
Persona che, nel qualificare se stessa, prende atto della coscienza, della consapevolezza come percorso e condizione di autenticità.
Al contrario dell'abbandono che, come inconsapevole altro-da-sè, si caratterizza come malafede e volontà di oblio.
L'inconscio è un po' come l'ideologia intesa come rifiuto della coscienza, la quale si può sviluppare solo attraverso la conoscenza.
Una forma particolare di conoscenza: la riflessione progressivamente intuitiva.
Dice Romano Màdera in "Che cos'è l'analisi biografica a orientamento filosofico?",
quanto più si fa petulante l'ideologia collettiva che richiede rischio, mobilità e tragicomiche rivoluzioni permanenti della personalità, tanto più tutti sprofondano in una impotenza ansiogena.
Se, quindi, l'insuccesso è una costante e fondamentale presenza nell'esistente come progetto, lo scacco è quello stato di impotenza ansiogena che invade l'esistente come fenomeno.
In questo senso, l'analisi dell'inconscio, volendo guarire il disagio, opera sul fenomeno, sul sintomo, senza comprendere (o senza voler comprendere) la ragione fondante del disagio ma restando, al contrario, legata alla ragione scatenante.
Chiudo queste riflessioni ancora con Màdera:
Bisognerà saper essere nel mondo senza appartenere a questo mondo. Una filosofia seria dovrebbe avere queste caratteristiche nel suo codice genetico e dovrebbe resistere alla modificazione funzionale del suo codice genetico.