05 agosto 2009

La pagliuzza e il ramo.

Eugenio Borgna, nel suo ultimo lavoro edito da Feltrinelli Le emozioni ferite, a pag. 40 fa un'affermazione di grande importanza per la comprensione dei campi in cui può operare l'analisi flosofica esistenziale e dove la psichiatria (in questo caso fenomenologica) si attiva.
Beninteso, Borgna pensa che la psichiatria entri subito in gioco. Io penso, al contrario, che venga sottovalutato un passaggio esistenziale, oltre che logico-temporale, che - dopo aver riportato la citazione - andrò a individuare.
"Ogni esperienza psicotica si manifesta, o meglio tende a manifestarsi, nel contesto di situazioni umane di crisi: il passaggio dalla prima alla seconda adolescenza, il distacco dalla casa dei genitori, l'insorgenza, o la dissolvenza, di relazioni affettive, la nascita di un bambino, l'entrata nel vortice di una vita professionale, il conseguimento di una meta ardentemente desiderata e rapidamente svuotatasi di senso, la perdita della patria con la conseguente straziata nostalgia, le infinite figure della separazione con l'angoscia conseguente che è matrice, o simbolo, della kierkegaardiana malattia mortale: nella sua disperazione irredenta e insalvabile. Le umane situazioni di crisi determinano profonde insicurezze in ordine all'immagine di sé, all'identità psichica e fisica, e si accompagnano alla dolorosa esigenza di articolare una nuova orientazione esistenziale: che si fa impossibile... ecc. ecc."
Tutto vero. Ma perchè le sopra citate situazioni devono immediatamente essere considerate situazioni umane di crisi? Perchè, secondo Borgna, è impossibile articolare una nuova orientazione esistenziale?
A mio parere, quelle citate come tutte quelle non citate e/o sottintese sono - prima di tutto - situazioni esistenziali in cui è necessario operare una forma di chiarificazione concettuale, e di conseguenza esistenziale, fino ad arrivare a una prospettiva di ri-orientazione. Quest'ultima è impossibile solo se le situazioni vengono considerate tout court di crisi, cioè se la conseguenza viene usata come connotazione primaria, o se a tale stato sono ormai giunte.
Situazioni come quelle sopra delineate sono, sic et simpliciter, di crisi? Se così fosse, si farebbe un salto non solo interpretativo ma ideologico nella definizione dell'essere umano e delle sue situazioni esistenziali come fondamentalmente "critiche", per non dire "malate".
Può succedere, a mio parere, che tali siano solo se si lascia che quelle situazioni esistenziali, dalle più semplici alle più complesse da maneggiare, siano ontologicamente critiche.
L'analisi filosofica esistenziale può operare su queste situazioni umane ancora non critiche per evitare che critiche diventino.
La sua bussola, messa in mano all'essere umano, diventa strumento di orientazione e ri-orientazione esistenziale.
Bisogna essere "fini" nell'analisi e nel ragionamento per evitare di fare salti pericolosi. Allo stesso tempo, bisogna essere consapevoli che senza questa "finezza" di pensiero il salto diventa inevitabile.

29 luglio 2009

Ti estì.

Esiste un tipo di disagio che non può essere inserito all'interno della categoria delle nevrosi ma che si sviluppa fondamentalmente a livello esistenziale.
Esso si avverte allorché si sente coscientemente il bisogno di riflettere sul proprio stare al mondo e chiarificarne il senso, le condizioni, le opzioni, le prospettive.
Questa dimensione non può essere definita nevrotica per un motivo: essa si muove a livello di coscienza.
Non sempre, tuttavia, ciò che si trova a livello conscio trova spazio nella riflessione individuale o di gruppo.
Di più, spesso anche ciò che si muove a livello conscio non emerge all'attenzione o viene investito da una sorta di "rimozione consapevole" che può essere sintetizzata nella frase "andiamo avanti, prima o poi passerà".
Questa rimozione consapevole si pone agli antipodi della frase chiave della chiarificazione. Il "ti estì" dei greci: che cos'è?
La domanda sul "che cosa" non si inserisce nel processo psicologico ma resta strettamente legata alla funzione della riflessione di tipo filosofico esistenziale. Anzi, la fonda.
Tale riflessione opera sì nell'area del razionale ma investe anche l'elemento emozionale conscio, l'elemento sentimentale e quello intuitivo.
Il percorso tende a ricollocare nella forma della logica tali elementi per, appunto, chiarificarli, riordinarli, renderli coerenti all'esistenza, (re)inserirli in un orizzonte di senso che consenta all'individuo di (ri)posizionarsi all'interno della propria esistenza e della relazione umana che vive.
Lo stesso vale per i gruppi (famigliari, di lavoro, associativi, scolastici) consentendo attraverso l'analisi filosofica di chiarificare le opzioni del gruppo, mediarle con lo sviluppo dei singoli, fino a riportare il gruppo stesso nelle condizioni di (pro)seguire la sua funzione.
Il percorso di analisi filosofica si sviluppa nella primaria forma del dialogo filosofico inserendo, secondo necessità, elementi funzionali all'obiettivo e/o ai soggetti, quali ad esempio la lettura filosofica di testi, la drammatizzazione di gruppo, la dinamica percettiva e altri.

08 gennaio 2009

... la visione d'un uomo non può prestare le sue ali a un altro uomo.

[...] Allora un maestro disse:
Parlaci dell'Insegnamento.
Ed egli disse:
Nessuno può rivelarvi se non quello che già cova semi addormentato nell'albore della vostra conoscenza.
Il maestro che passeggia all'ombra del tempio, tra i seguaci, non elargisce la sua saggezza,
ma piuttosto il suo amore e la sua fede.
Se egli è saggio veramente, non vi offrirà di entrare nella casa della propria sapienza;
vi condurrà fino alla soglia della vostra mente.
L'astronomo può parlarvi di come intende lo spazio, ma non può darvi il proprio intendimento.
Il musicista può cantarvi il ritmo che è dovunque nel mondo,
ma non può darvi l'orecchio che ferma il ritmo, né la voce che gli fa eco.
E chi è versato nella scienza dei numeri può descrivervi le regioni dei pesi e delle misure,
ma non può condurvi laggiù.
Perché la visione d'un uomo non può prestare le sue ali a un altro uomo.
E come ciascuno di voi sta da solo nella sapienza di Dio,
così ciascuno di voi deve essere solo nel suo conoscere Dio, e nel comprendere la terra.
Gibran

07 novembre 2008

Come possiamo esistere?

Piazza Vittorio Veneto a Torino, la città dove più forte si sente la crisi economica, e di conseguenza sociale, che da tempo attanaglia le nazioni, senza escludere (anzi!) l'Italia.
Torino della Motorola che lascia da un giorno all'altro e chiude il Centro Ricerche dopo aver intascato milioni di Euro per insediarvisi; Torino della cassa integrazione Fiat; Torino della Dayco; Torino della crescente povertà di quelle classi che fino a qualche anno fa si sentivano privilegiate perchè, se non altro, qualcuno in famiglia aveva un posto fisso.
In Piazza Vittorio Veneto è apparsa, come un miraggio, una struttura espositiva che si presenta con l'immagine che ho fotografato. Una Compagnia di Crociere che invita il pubblico:
"Regalati il Lusso" urla con, a fianco dell'headline, l'immagine di un diamante.
Forse quel diamante vuole ricordare uno dei tanti gioielli che sono finiti ultimamente al Monte di Pietà!!!
Al di là di scontate riflessioni circa l'opportunità di una tale comunicazione nel pieno centro di Torino, nel luogo dove tutti i torinesi (sicuramente quelli che non possono permettersi - più - week end in montagna o al mare) passano nella loro passeggiata, che lascio al buon senso di chi ha pensato a una tale campagna di comunicazione; la mia riflessione si situa all'interno di quanto scritto ultimamente in questo blog.
Il costruire la propria esistenza su miti, mode e stereotipi porta inevitabilmente a creare un distacco tra il proprio esistere nella realtà e il fantomatico voler esistere nell'irrealtà o, meglio, in un irreale che si pretende reale.
Mentre dal punto di vista dell'impresa che con così tanta sfacciataggine comunica il lusso, un tale messaggio rischia di portare un notevole danno di immagine; dal punto di vista dell'individuo, ogni passo indietro rispetto a ciò che si vorrebbe essere - perchè questo è il mito - costituisce una fase di distruzione dell'essere nel suo esistere consapevole.
Un senso di insuccesso, se non di scacco, che porta - perchè non esistenzialmente caratterizzato - a varie forme di angoscia.
Il moderno capitalismo, fondato sul nulla finanziario, ha mostrato in questo periodo la fallacia del voler essere senza poter essere. Ha dimostrato come esso (appunto quello che chiamo moderno) usi gli individui per raggiungere i suoi scopi a scapito degli individui stessi.
La fenomenicità dell'esistente si scontra con la realtà dell'esistenza. Il costituire il proprio essere sul dato subìto della realtà che ci circonda porta inevitabilmente, soprattutto in questa fase storica, alla disillusione, al senso dell'insuccesso.
Se non riesci a realizzarti nella vita, sposa un uomo ricco, ha detto qualcuno. Così ti porterà in crociera nel lusso.
Se non ce la fai, ti dovrai far bastare l'andare a vedere a Torino, in Piazza Vittorio Veneto, cos'è un lusso che non ti puoi regalare.
Forse è sempre più urgente ricostruire un senso dell'esistenza che possa essere arma e scudo per la vita dell'esistente e che non lo lasci in balia degli uragani ma che consenta al suo essere di dominare l'esistente.

10 ottobre 2008

Bauman e gli schiavi della carta di credito.

Zygmunt Bauman, sociologo e teorizzatore della società liquida, scrive su La Repubblica dell'8 ottobre (pag. 7) un articolo dedicato al nostro modo di vita e al disastro finanziario globale di questo periodo.
La sociologia, di solito, si limita a trasferire in bel linguaggio quello che è il "risaputo", quello che la "signora Maria" o il "signor Rossi" ormai da tempo danno per scontato.
Talvolta, però, sempre la sociologia, giunge a conclusioni di grande interesse.
L'articolo di Bauman non dice niente di nuovo, siamo onesti. Tuttavia giunge a una conclusione tanto acuta quanto triste.
La riporto tale e quale per non perdere nulla del senso delle parole:
"... Quello che si dimentica allegramente (e stoltamente) in quest'occasione è che l'uomo soffre a seconda di come vive. Le radici del dolore oggi lamentato, al pari delle radici di ogni male sociale, sono profondamente insite nel nostro modo di vivere: dipendono dalla nostra abitudine accuratamente coltivata e ormai profondamente radicata di ricorrere al credito al consumo ogni volta che si affronta un problema o si deve superare una difficoltà. Vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe, e decenni di abbondante disponibilità di una droga non possono che portare a uno shock e a un trauma quando la disponibilità cessa. Oggi ci viene proposta una via d'uscita apperentemente semplice dallo shock che affligge sia i tossicodipendenti che gli spacciatori: riprendere (con un'auspicabile regolarità) la fornitura di droga.
Andare alle radici del problema non significa risolverlo all'istante. E' però l'unica soluzione che possa rivelarsi adeguata all'enormità del problema e a sopravvivere alle intense, seppur relativamente brevi, sofferenze delle crisi di astinenza".
Tutto molto giusto. Siamo come drogati del credito al consumo che devono continuare a "nutrirsi" di esso. Ma perchè dobbiamo continuare? Perchè se no i sistemi finanziari crollano.
Quindi siamo come drogati che invece di avere una prospettiva di uscita o di riduzione di consumo, in una visione estrema, vedono la polizia fornire la droga agli spacciatori perchè, loro, non ne hanno più. E se non ci fossero più gli spacciatori, non ci sarebbero più i poliziotti.
Aiuto.................

26 settembre 2008

La fabbrica della paura.

Voglio inoltrarmi in un tema che non è strettamente connesso al mio blog ma che molto ha a che fare con la percezione della realtà che tutti i giorni sperimentiamo e con i messaggi che si cerca, in varie situazioni, di far passare.
Ieri sera capito per caso sulla trasmissione Otto e mezzo in onda su La7 alle 20,30 e condotta quest'anno da Lilli Gruber.
Il tema della serata era la "paura". Tema che nasceva dalla pubblicazione dei dati Censis sulla paura percepita dai cittadini con particolare riferimento ai cittadini di Roma.
Un argomento stuzzicante per sviscerare il quale sono stati invitati Annamaria Testa (pubblicitaria e docente non so di cosa alla Bocconi), il prof. Boncinelli (genetista del San Raffaele di Milano) e il Ministro La Russa.
Al di là di un modestissimo appunto circa la debolezza della gestione del programma, tutt'altra cosa rispetto a quando il conduttore principe era Giuliano Ferrara, mi sono sentito precipitato in una trappola buonista in cui l'unico che manteneva salda la rotta, e la dignità, era il Prof. Boncinelli.
Due argomenti mi hanno veramente scandalizzato, anche perchè fortemente falsi.
Il primo, portato da Annamaria Testa: la pubblicità non gioca i suoi messaggi sulla paura ma promette qualcosa di migliore che risponde a bisogni definiti.
Ma come?!?! Basta guardare una normale serie di spot pubblicitari per accorgersi di come la paura sia la padrona.
Dietro una crema antirughe c'è la paura di invecchiare, dietro un chewing gum senza zucchero c'è la paura del dentista (dolore e costo) e del giro vita, dietro una macchina con 6 airbag c'è la paura dell'incidente, dietro un salvalavita c'è la paura di non essere soccorsi, e via dicendo.
Come si fa a dire che la pubblicità non gioca sulla paura quando essa è la motivazione più o meno inconscia che determina la strategia comunicativa della maggior parte della pubblicità in visione! Certamente, non c'è solo la paura. Ci sono altre leve psicologiche, anche piacevoli. Ma non si può dire che la paura non sia una leva psicologica del messaggio pubblicitario.
Nella trasmissione si sono susseguiti un bel po' di luoghi comuni tesi forse ad addormentare un tema scabroso ma nessuno che si sia spinto a domandarsi come la paura giochi un ruolo fondamentale nella formazione della visione del mondo degli individui e come essa, ormai, si qualifichi non più solo come paura-di-qualcosa ma come paura-di-tutto senza che l'individuo sia in grado di determinare cosa sia veramente questo tutto, finendo in stati di angoscia permanente che esplodono nel momento in cui una delle paure si svela nella sua particolarità e si determina come, ormai, inaffrontabile. Rileggiamo i libri, i romanzi, i testi teatrali di Jean-Paul Sartre e scopriamoci lì dentro, ne La Nausea, nei Sequestrati di Altona, ne Il diavolo e il Buon Dio, in Nekrassov...
Finchè, sempre, nella trasmissione televisiva, si arriva a proporre che gli individui hanno paura di ciò che non conoscono e questo è determinato da ignoranza. Il buon Professor Boncinelli, l'unico a quel punto a cercare di dire cose sensate visto che nessuno gli aveva ancora dato la possibilità di spiegare, e spiegarsi, cosa ci facesse lui - genetista - lì a parlare di paura, proponeva il tema dell'analfabetismo di ritorno.
E a questo punto, apriti cielo!, Gruber e Testa da sinistra e La Russa da destra a dire che non si può parlare di analfabetismo in un Paese come l'Italia che dal primo dopoguerra ha fatto passi da gigante per combattere l'analfabetismo, per portare l'istruzione a tutti i livelli della società, ecc..
Ma il povero Boncinelli non parlava della mancanza di istruzione! Parlava di analfabetismo di ritorno; di quel fenomeno, cioè, per cui grazie alla televisione non si è capaci di concentrarsi per più di 5 minuti di fila; per cui si legge una pagina di un libro o un capitolo e non si è più capaci di sintetizzare ciò che si è letto; per cui non si è più capaci di scrivere in buon italiano perchè lo abbiamo disimparato a favore dell'sms-linguaggio (paradigmatico il caso del professore a ingegneria che scrive "che" alla maniera dell'sms, cioè "ke" e sostiene che quello è il modo giusto).
L'analfabetismo di ritorno è quello stato per cui non si riflette più su quello che si vede e che si legge ma lo si assorbe acriticamente. Non è il non saper leggere o scrivere!
Non riuscivo a capacitarmi della situazione ma poi ho pensato che ognuno di loro aveva qualcosa da paludare: la pubblicità studiata per trattare il consumatore da idiota, la televisione spazzatura, il fulgido ventennio, la sinistra del "tutti promossi", ecc. Solo Boncinelli voleva e doveva mantenere rispetto per se stesso e per la scienza che rappresenta.
Il tutto intervallato dalla frasetta ben imparata da quella grande professionista che è Lilli Gruber: "la risposta ce la darà...dopo la pubblicità!".
...e al colmo della mia perplessità, in perfetto orario - alle 21,10 - ogni discussione veniva interrotta per la programmazione del telefilm serale.

22 settembre 2008

Altri interventi, anche di striscio, sulla Consulenza Filosofica.

Proseguo nell'informazione sulla consulenza filosofica, inserendo un articolo di Nicla Vassallo apparso sul Domenicale de Il Sole - 24 Ore e diffuso anche dal sito Rescogitans.it.
In questo articolo sulla pop-filosofia Nicla Vassallo tocca il tema della Consulenza Filosofica in maniera abbastanza "definitiva".
A voi la lettura.
Sopravvivere al pop pensiero (Il Sole 24 Ore - 29 giugno 2008)
" Guardare o non guardare “Lost”, “24”, “C.S.I.”, e quant’altro? Seguo alcune serie, lo confesso, specie “Damages” per la superba Glenn Close, ma anche per dissipare tristezze e deliri filosofici, così come David Hume giocava a tric-trac, mentre Ludwig Wittgenstein leggeva “crimes fiction”. Non so come loro avrebbero giudicato tomi di filosofia del tric-trac, di filosofia dei polizieschi, o quelli che oggi impazzano sulle serie televisive; io non esiterei a classificarli tra i volumi dozzinali che consegnano il discorso filosofico alle perversioni di un mercato editoriale ove il profitto a qualunque costo ha spesso il sopravvento sull’eleganza e la ricercatezza della qualità.
A fiutare il business sono state per prime le case editrici straniere (quelle italiane non fanno altro che seguire a ruota) con i loro tanti, troppi titoli che estendono la filosofia a qualsiasi “prodotto” di successo; per esempio, la collana “Popular Culture and Philosophy Series” della Open Court ha già trattato di Signore degli anelli, baseball, Sopranos, Harry Potter, Supereroi, dieta Atkins, Bob Dylan, Harley-Davidson, poker, U2, James Bond, Quentin Tarantino, iPod, e via dicendo. Sarò anche una cassandra, ma questa filosofia da discount non potrà che riciclarsi, ricalcando e ricopiando se stessa – del resto, il plagio è stato recentemente sdoganato dagli atti disdicevoli – e non mi stupirò se giungerà a dare il meglio di sé, puntando su titoli come “L’etica di Paris Hilton”, “L’estetica di David Bechkam”, “La metafisica di Nintendo”.
Dubito del fatto che questi volumi abbiano qualche chance di rappresentare reali divertissement (lo sguardo di Glenn Close non ci può certo venire restituito da un filosofo maldestro), così come del fatto che siano buone opere divulgative. In realtà, risultano spesso incapaci di semplificare il discorso filosofico, e a volte cadono, anzi, in quella che Thomas Hobbes chiamava la «maniera di parlare scolastica: l’intelletto intende, la vista vede, la volontà vuole; e, per una giusta analogia, la passeggiata, o almeno la facoltà di passeggiare, passeggerà». Per di più, al fine di rendere davvero comprensibile la filosofia al grande pubblico, occorre una solida competenza filosofica, oltre che un certo talento, e «voler pensare è una cosa; aver talento per pensare, un’altra», preciserebbe Wittgenstein.
Rendere chiare le argomentazioni complesse e le analisi sottili non deve significare appiattire la filosofia su Harry Potter o Paris Hilton. Però perché non consacrare l’uno e l’altra a modelli di vita cui ispirarsi? Già, non manca neanche la filosofia che impartisce qualche suggerimento, più o meno assennato, su come vivere, finge che ci sia una “fazione” (morale, politica, religiosa) avversa, dà l’impressione di elargire saggezze. Magari di vera filosofia non si tratta, eppure ha ormai invaso gli scaffali delle nostre librerie, dove troviamo persino una collana in cui a consigliarci sul “saper vivere” sono alcuni cosiddetti consulenti filosofici – figure raccapriccianti per chi crede che la filosofia sia innanzitutto analisi concettuale, esperimenti mentali, ragionamento rigoroso. «Logica ed etica sono sostanzialmente la stessa cosa: un dovere verso se stessi», diceva Otto Weininger, ma in pochi lo vogliono ricordare.
Non c’è forse bisogno di sfuggire alla propria quotidianità con la filosofia delle diete, delle serie tv, dei supereroi, delle ereditiere? Di riflettere su cosa si guarda, si legge, si copia, così come su se stessi? Di capire se vivere bene sia una questione di scelta, di opportunità, di moda? Cosa dobbiamo mettere al centro della nostra vita? Quali sono le nostre priorità? Serie televisive, incantesimi, pettegolezzi, dottrine pedestri, oppure felicità, moralità, fede (agnosticismo, ateismo), famiglia, edonismo, realizzazione di sé? Cos’altro? Caviale e champagne forse guastano? D’accordo, c’è caviale e caviale, quello del discount e quello reale dell’almas beluga – ad alcuni palati si addice l’uno, mentre ad alcuni palati l’altro. Parallelamente, ci sono libri di filosofia e libri di filosofia, una cosa sono quelli “pop” (da “popular”), ben altra i classici – ad alcuni cervelli si addicono i primi, mentre ad alcuni cervelli i secondi.
Tuttavia, non voglio negare che nel variopinto universo della filosofia pop ci siano voci più oneste di altre. “The Weight of Things. Philosophy and Good Life” (Blackwell, Oxford, pp. 177, £. 9.99), per esempio, è un volume non saccente, argomentato con poca retorica altisonante, corredato di una nutrita bibliografia, che tenta di rispondere a domande – mi pare che l’autrice, Jean Kazez, faccia poco per nasconderlo – sul significato della propria specifica vita, e non sul significato della vita. Aristotele, Buddismo, Dio, cristianità, famiglia, felicità, fortuna, moralità, morte, necessità, Platone, religione, stoicismo (l’epicureismo viene liquidato in poche righe), Tolstoj (con la sua crisi mistico-esistenziale e la sua cosiddetta conversione), utilitarismo sono i temi su cui Kazez si sofferma di più – un bel pot-pourrì.
Amante sfrenato della tuttologia e conseguentemente della grossolanità, il lettore di pop non farà del resto troppo caso ai “dettagli”: al fatto, per esempio, che al problema della conoscenza venga dedicata solo qualche misera paginetta. Eppure, se avesse torto Aristotele a sostenere che noi esseri umani aspiriamo per natura alla conoscenza, che senso avrebbe cercare (di conoscere) il significato della vita, sia che con esso s’intenda il significato della nostra particolare vita, o di qualsiasi altra vita? Ma il lettore di pop è già sotto l’ombrellone di una spiaggia affollata, sta leggendo un libro pop e non deve concentrarsi: chissà se ha colto il significato della domanda. Io, invece, lontana dalle fiumane estive, per divertissement ascolto Marin Marais – di cui la filosofia pop non si occuperà probabilmente mai – e sul divertissement dissento da Blaise Pascal".

01 settembre 2008

Consulenza filosofica e albo professionale.

Chi mi conosce sa perfettamente quanto io sia un avversario di tutti gli albi professionali a cui preferisco un sistema associativo di garanzia (soprattutto di coloro che alle professioni si rivolgono) che non vada a costituire un sistema di protezione corporativo e al di là di ogni messa in discussione, di ogni regola di mercato e di ogni giudizio di efficacia.
Insomma, non amo gli ordini protetti.
Per questo riporto il testo di "Filosofia minima" di Armando Massarenti sull'inserto domenicale de Il Solo - 24 Ore del 24 agosto scorso.
Mi piacerebbe che coloro che come me si cimentano con la filosofia e con la consulenza filosofica o, che dir si voglia, con le pratiche filosofiche, con la filosofia applicata, esprimessero la loro opinione su quella che definisco la provocazione di Massarenti e sul generale tema, appunto, della consulenza filosofica.
Ecco il testo dell'articolo.
Tutti iscritti all'albo dei pensatori
"Sul sito dell'Istituto Bruno Leoni, Silvio Boccalatte commenta «Il meglio del peggio delle proposte di legge in discussione», un bilancio dei primi cento giorni di attività del Parlamento visti da una prospettiva liberale. Si parla anche di un progetto intitolato «Norme relative alla professione del consulente fllosofico e istituzione del relativo albo professionale». L' Italia è il Paese più ricco al mondo di albi e ordini, senza che «ciò produca alcun beneficio per la qualità dell'esercizio delle professioni». La consulenza filosofica farà eccezione? «Sono quasi tremila anni che il mondo della filosofia si sviluppa con insopportabile anarchia - ironizza giustamente Boccalatte -, producendo idee nocive per il bene pubblico. Una società moderna e postindustriale non può tollerare che una persona, non debitamente formata e sottoposta a certificazione statale, instilli convinzioni errate nelle menti del liberi cittadini». Seguono esempi paradossali di consulenti che hanno impartito lezioni assai dubbie. Aristotele con Alessandro Magno e Seneca con Nerone, sono stati dei consulenti efficaci? Se un ente pubblico avesse certificato la loro professionalità, forse I'umanità avrebbe evitato crimini e guerre!
Ma c'è anche un altro motivo per essere scettici sull'utilità di un tale albo e riguarda la natura stessa della consulenza filosofica. I suoi cultori insistono sul suo aspetto dialogico: «il consulente prende parte alia ricerca alla pari del consultante, ovvero egli stesso, nel dialogo, mette alla prova le sue idee, le sue teorie - e pertanto non ha nulla da "insegnare" al consultante, che si limita ad accompagnare nell' esplorazione della sua visione del mondo». La consulenza filosofica va dunque distinta dal «counseling filosofico» perche quest' ultimo, anche se suona quasi uguale, «fa uso di tecniche psicologiche di ascolto e di comunicazione, ovvero opera strumentalmente sul consultante». Dunque sarebbe più plausibile un albo del «counseling filosofico» (previsto infatti in alcuni Paesi) e non della consulenza filosofica. Se però il legislatore volesse persistere sulla sua strada rimarrebbe ancora una cosa da fare: iscrivere d'ufficio non solo i consulenti, ma anche tutti coloro che si rivolgono alla consulenza e, perchè no, anche tutti coloro che amano ragionare in proprio. Una tecnica inflazionistica per dimostrare due cose: che siamo tutti un po' filosofi e quanto è inutile l'albo".

08 luglio 2008

Un anno dopo

Ho abbandonato il mio blog un anno fa e lo riprendo oggi con rinnovato vigore.
A volte è necessario riflettere prima di dare in pasto alla rete i propri pensieri ma, soprattutto, è necessario definire il taglio di un blog che non rappresenta la necessità di esprimere se stessi in un mondo espanso quanto l'ambizione di diffondere le riflessioni filosofiche che nascono dal variegato e liquido mondo della ricerca filosofica, della filosofia applicata, delle neuroscienze, della psicologia.
Voglio riprendere il mio viaggio usando quanto scritto da Richard Dawkins ne Il cappellano del Diavolo (ed. Cortina 2004):
"Le verità che riguardano la vita quotidiana sono esposte al dubbio filosofico tanto quanto - o poco quanto - le verità scientifiche. (...)
La Legge di Dawkins della Conservazione della Difficoltà enuncia che l'oscurantismo in una materia accademica si espande fino a riempire il vuoto della sua intrinseca semplicità. (...)
Vogliono passare per profondi, ma la loro materia, in realtà, è piuttosto semplice e superficiale, sicchè devono gonfiare il linguaggio per ricomporre l'equilibrio".
Evitiamo di usare l'oscurità del linguaggio per tentare di sopperire all'assenza di concetti.
Il primo compito di un filosofo, di uno scienziato, di un intellettuale è quello di rendere comprensibile il proprio pensiero o i risultati della propria ricerca.
Così, c'è chi non ci riesce ma c'è anche chi non può riuscirci perchè non c'è nulla da rendere comprensibile.
La stessa cosa vale per l'argomentazione delle proprie tesi o delle proprie analisi. La filosofia non procede per dimostrazioni ma necessita dell'argomentazione per sostenere il proprio lavoro.
Niente da dire sui filosofi che limitano la propria opera alla riflessione ma, a mio parere, laddove si lavora sull'esistenza, cioè laddove più vicini si è all'umano esistente, il discorso filosofico dovrebbe - nella fase costruttiva - essere argomentato. Non fosse altro che per giocare ad armi pari con l'analisi scientifica delle modalità d'esistenza.

23 luglio 2007

Filosofia, psicologia, neuroscienze.

Sul supplemento della domenica de Il Sole 24 Ore del 22 luglio sono apparsi due articoli che rivestono un grande interesse.
Il primo di essi si intitola Se il cervello si proietta sulla tela ed è stato scritto da Anna Li Vigni.
In esso si parla di estetica e neuroscienze e si fa riferimento a una raccolta di scritti a cura di Lucignani e Pinotti che porta il titolo Immagini della mente. Neuroscienze, arte, filosofia edito da Cortina.
L'autrice dell'articolo cita il fondatore dell'Istituto Londinese di Neuroestetica, Semir Zeki, il quale sostiene come gli artisti sarebbero dei neuroscienziati sui generis, capaci di interrogare il cervello umano con tecniche tutte loro.
"V'è ancora - scrive Li Vigni - una forte resistenza all'idea che un evento spirituale come l'arte sia da ricondursi a matrici biologiche (...) Recenti applicazioni di tecnologie avanzate di brain imaging (ad esempio, la risonanza magnetica funzionale o la PET, n.d.r.) hanno permesso di visualizzare quali zone del nostro cervello si attivano durante la fruizione o la creazione di un'opera d'arte".
Esempio tipico sono le pitture (brain painting) di Jackson Pollock che non potrebbero essere godute se ci si sforzasse di comprenderne intellettualmente il senso, mentre il nostro cervello visivo ne è catturato poichè (secondo Maffei, uno degli autori del volume citato) nell'apparente disordine della tela esso riconosce una riproduzione dei processi della propria memoria motoria.
Anche l'empatia, per esempio, trova (o troverebbe, n.d.r.) origine dall'azione dei neuroni mirror che stanno alla base di un meccanismo che ci permette di imitare istintivamente, o anche solo di comprendere, le azioni degli altri, senza imitarle.
Lo stesso meccanismo di specchio sarebbe alla base delle emozioni primarie che suscitano in noi talune immagini.
La neuroestetica, disciplina giovane, ci dice quindi come reagisce il nostro cervello di fronte all'arte e di fronte al bello.
Sempre nella stessa pagina de Il Sole 24 Ore, appare un altro articolo, di Roberto Casati, in cui viene presentato il volume di Paola Bressan intitolato Il colore della luna. Come vediamo e perchè edito da Laterza. Qui si parla del rapporto tra neuroscienze e psicologia della percezione visiva.
Perchè siamo affascinati dall'immagine di una donna con le pupille più dilatate rispetto a una dalle pupille molto piccole? Perchè per il dongiovanni avviene il contrario? Perchè vediamo la luna bianca mentre è grigia? Perchè, se le avviciniamo un oggetto bianco, la vediamo finalmente grigia?
Ci troviamo, qui, nell'ambito della cosiddetta psicologia evoluzionistica che segue il seguente metodo: si formula un'ipotesi sufficientemente ragionevole sull'ambiente adattivo e, a partire da questa, si fa un'ipotesi su una caratteristica cognitiva cui non si era pensato finora (es. il dongiovanni ha una visione binoculare, come i predatori, come l'ex predatore che è il cane, e non è interessato alle pupille dilatate che esprimono interesse verso di lui mentre egli semplicemente massimizza le sue possibilità riproduttive senza cercare legami stabili).
E' la conferma di questa caratteristica a costituire una convalida del processo.
Il paradigma emerge perchè ormai queste spiegazioni sono molte e articolate e perchè si incomincia a intravvedere, a medio termine, una promettente unificazione tra psicologia e biologia.
Si tratta di una fase di grande interesse, confermata dagli sviluppi delle neuroscienze che nel corso di questi anni hanno dimostrato sperimentalmente come le emozioni, i sentimenti e le reazioni degli individui si formano attraverso precise attività compiute dal cervello, attraverso l'entrata in funzione o l'inibizione di talune parti del cervello stesso.
Questa evoluzione nella ricerca riporta, da una parte, all'interno fisico dell'individuo la funzione attiva da lui svolta in relazione a emozioni, sentimenti, reazioni.
Dall'altra parte, riapre il discorso sulla mente e sulla coscienza come agenti di consapevolezza del proprio essere esistente (in tutti i sensi del verbo esistere): quello che Dennet definisce: whatisitliketobe.
Da un'altra parte ancora, sembrerebbe fornire una visione biologica dell'inconscio intendendo, con questa definizione, che l'inconscio è nient'altro che l'attività del cervello di fronte a stimoli di vario genere che determinano il generarsi di emozioni, sentimenti, reazioni, ecc.
Se queste ricerche si svilupperanno (come sembra) e con successo, producendo risultati eclatanti come quelli finora ottenuti, pare interessante notare come la biologizzazione della psicologia finisca per andare a negare funzione e validità alle psicoterapie.
Riportando, in luce, di fatto la funzione della filosofia (filosofia morale, etica, pratiche filosofiche). Queste ultime avranno sempre più spazio per intervenire sulla coscienza, in quanto consapevolezza della condizione di esistente e, quindi per lavorare in quel campo che le psicoterapie hanno cancellato pretendendo di ridurlo a una subordinata dell'inconscio che esse sole sono in grado di analizzare e muovere.

24 maggio 2007

Riflessione sulla consulenza filosofica

La consulenza filosofica è, a mio parere, la capacità (o, meglio, il tentativo capace) di far sì che l'individuo (il consultante) possa re-impossessarsi del senso della propria esistenza in generale o del proprio esistere particolare, intervenendo egli stesso sui propri problemi e disagi. Ciò, senza dover più derogare ad altri le forme eterodirette di intervento sui problemi e disagi stessi.
L'autodirezionalità dell'individuo con se stesso e con la propria condizione esistenziale è la vera cura.
La consulenza filosofica non è dunque un prendersi cura ma una sorta di formazione interattiva al prendersi cura di sè.
In tal senso si può parlare di metodo/non-metodo filosofico e di dialogo filosofico non come una relazione empatica ma come la creazione di uno spazio logico di interlocuzione tra consulente e consultante.
Elemento fondamentale di questa che ho, in fase puramente preliminare, definito formazione interattiva è il prendere coscienza dell'altro-da-sè da parte del sè. Tale atto richiede l'emersione del senso della coscienza, dell'autoconsapevolezza della coscienza.

20 gennaio 2007

Postfazione a "La filosofia di Jean Lacroix" (2006)

Viviamo in un'epoca narcisista, dove vige la proibizione della sofferenza, delle sensazioni, dell'autocontrollo. Dove l'insensibilità verso lo spirito si esprime al meglio attraverso il super-uso di antidepressivi, attraverso la narcomania medica.
Così Meletis Meletiadis esprime la sua visione del mondo contemporaneo.
Il filosofo e psicanalista Miguel Benasayag, insieme a Gérard Schmit, scrive nel mirabile "L'epoca delle passioni tristi",
... non interessa affatto cercare di comprendere il messaggio o la difficoltà esistenziale che si nascondono dietro al sintomo o in un comportamento, perchè quel che conta è diventare un lupo performante, dominare tutto, comprese le proprie pulsioni, non nel senso proposto dagli ideali di saggezza di molte filosofie, ma per canalizzarle ai fini di una vita produttiva e utilitarista.
Visioni, queste, che, condividendole, esprimo attraverso il concetto di oscillazione dalla progettualità del sè alla dittatura dell'altro-da-sè.
È con questa consapevolezza che ho ripreso il lavoro di un filosofo personalista come Jean Lacroix per ritornare sul tema del soggetto, del suo rapporto con l'essere-nel-mondo che lo caratterizza e con i sistemi fondativi del suo stesso essere-nel-mondo.
Per fare ciò è, a mio parere, necessario riconsiderare il rapporto tra soggetto e fenomeno proprio dell'esistenzialismo e l'opposizione a questa relazione operata dal personalismo (principalmente proprio da quello di Lacroix) per provare a trovare una ricetta positiva che restituisca maturità al rapporto tra soggetto e realtà.
Da una parte, infatti, troviamo l'approccio fenomenologico dell'esistenzialismo per il quale il soggetto è fenomeno, è essere-gettato-nel-mondo e, in quanto tale, acquisisce il senso che l'altro-da-sè gli attribuisce.
Dall'altra parte troviamo l'approccio personalista di Lacroix per il quale il soggetto è persona in quanto dotato di progettualità e il cui agire esige la fede.
Non in mezzo ma oltre queste due visioni situo la mia proposta secondo la quale il soggetto deve sapersi liberare dalla sua fenomenicità per riqualificarsi come progettualità.
La liberazione dalla fenomenicità non avviene, però, sfuggendola ma, al contrario, riconquistandola in quanto tale.
Confrontandosi, in altri termini, con l'altro-da-sè senza perdersi nell'altro-da-sè e considerando ciò che del sè è altro-da-sè.
Solo il confronto consente, a mio parere, la ricostruzione (o costruzione) progettuale, riportando il soggetto alla soggettività e difendendolo da una oggettività invasiva e invadente.
Riportandolo alla condizione di un io che si afferma come sè.
In questo percorso non si può sfuggire al rischio dell'insuccesso che perde la sua valenza rischiosa e angosciante per diventare un'opportunità.
Una sorta di specchio, di bocca della verità, di alter ego critico.
L'insuccesso è proprio dell'uomo autentico, della persona che
indica ognuno di noi come essere multiplo, intessuto di molteplicità e che accetta il fatto di non conoscere i propri limiti e la propria molteplicità.
Uomo autentico che giustifica la consapevolezza della propria continua evoluzione.
Ma non c'è consapevolezza senza critica e, in positivo, c'è consapevolezza laddove c'è sincerità.
Dove c'è consapevolezza e sincerità c'è autenticità che, in quanto caratteristica esistenziale determinantesi dall'agire dei due primi elementi, si esperisce nel movimento di presa di coscienza di sè come slancio.
L'insuccesso, dunque, lo interpreto come riscontro alla sincerità; come accadimento dell'agire legato alla capacità di affrontare.
È questa la problematica esistenziale fondamentale per l'uomo contemporaneo privato degli strumenti per affrontare una vita autentica.
Privato, cioè, della sincerità e della consapevolezza.
Per Lacroix, l'insuccesso è una sorta di non-essere all'interno del volere.
Attraverso l'insuccesso si può giungere alla (o ci si può porre nel cammino verso la) verità come identità di intenzione e atto, di idea ed esistenza.
Lacroix interpreta la tematica dell'insuccesso secondo la doppia chiave di lettura psicologica e filosofica. Se volessimo schematizzare questi percorsi, potremmo dire che, dal punto di vista psicologico, l'insuccesso è al centro dell'esistenza e predispone alla consapevolezza della continua evoluzione della persona che vuole giungere alla sincerità come identità di essere e sembrare.
Dal punto di vista filosofico, l'insuccesso è al centro della riflessione che si esprime in una filosofia dei limiti, in un continuo sforzo di conoscenza che porta alla verità come identità di intenzione e atto.
L'insuccesso è obiezione radicale a ogni filosofia concepita come sapere assoluto; è filosofia dei limiti.
La filosofia, quindi, come filosofia della verità, si esprime nella definizione dei gradi del reale e nella distinzione/separazione tra pseudo-reale e reale autentico.
Come condizione di sviluppo verso l'autenticità.
Ma se l'insuccesso è proprio dell'uomo autentico e, in quanto obiezione radicale a ogni filosofia come sapere assoluto, è condizione di consapevolezza, allora il dubbio è il motore che spinge l'obiezione radicale.
Il dubbio è lo sforzo di separare il giudizio dal suo contenuto, il soggetto dall'oggetto, in maniera tale che il soggetto possa distinguersi dall'oggetto invece di aderirgli e fare tutt'uno con esso.
Il dubbio, come separazione di soggetto e oggetto, determina la coscienza del proprio esistere.
Prima del dubitare si vive nel campo delle apparenze, della vertigine, della malafede.
La domanda, a questo punto, è se una visione fenomenologica dell'esistente possa avere anche minimamente a che fare col dubbio.
O se, al contrario, il dubbio sia condizione e carattere primario dell'essere progettuale, della persona.
Persona che, nel qualificare se stessa, prende atto della coscienza, della consapevolezza come percorso e condizione di autenticità.
Al contrario dell'abbandono che, come inconsapevole altro-da-sè, si caratterizza come malafede e volontà di oblio.
L'inconscio è un po' come l'ideologia intesa come rifiuto della coscienza, la quale si può sviluppare solo attraverso la conoscenza.
Una forma particolare di conoscenza: la riflessione progressivamente intuitiva.
Dice Romano Màdera in "Che cos'è l'analisi biografica a orientamento filosofico?",
quanto più si fa petulante l'ideologia collettiva che richiede rischio, mobilità e tragicomiche rivoluzioni permanenti della personalità, tanto più tutti sprofondano in una impotenza ansiogena.
Se, quindi, l'insuccesso è una costante e fondamentale presenza nell'esistente come progetto, lo scacco è quello stato di impotenza ansiogena che invade l'esistente come fenomeno.
In questo senso, l'analisi dell'inconscio, volendo guarire il disagio, opera sul fenomeno, sul sintomo, senza comprendere (o senza voler comprendere) la ragione fondante del disagio ma restando, al contrario, legata alla ragione scatenante.
Chiudo queste riflessioni ancora con Màdera:
Bisognerà saper essere nel mondo senza appartenere a questo mondo. Una filosofia seria dovrebbe avere queste caratteristiche nel suo codice genetico e dovrebbe resistere alla modificazione funzionale del suo codice genetico.

13 dicembre 2006

Esistenza possibile.


"Per l'essere-se-stesso, manifestarsi significa cogliere e superare il semplice reale nel senso empirico, in favore di una Esistenza possibile" (Karl Jaspers La mia filosofia).
Nel manifestarmi io mi perdo come esserci empirico per conquistarmi come Esistenza possibile.
Nel chiudermi in me stesso mi conservo come esserci empirico ma devo fatalmente perdermi come Esistenza possibile.

05 dicembre 2006

L'enigma del solitario.

Dieci anni fa veniva pubblicato in Italia, per la prima volta, L'enigma del solitario. Romanzo filosofico di Jostein Gaarder autore de Il mondo di Sofia.
Voglio solo riportare l'ultimissimo capoverso dell'Enigma per ricordare il nostro grande tema.
Il tempo ci rende adulti. E il tempo fa sì che antichi templi crollino e che isole ancora più antiche sprofondino nel mare.
C'era davvero un libro nel più grosso dei quattro panini che il panettiere di Dorf mi aveva messo nel sacchetto? Non c'è domanda che rivolga a me stesso con maggiore frequenza. Analogamente a Socrate, potrei dire: "Una sola cosa so: ed è di non sapere nulla".
Ma qualcosa, dentro di me, sa che c'è ancora un Jolly in giro per il mondo. Sarà lui a far sì che il mondo non si addormenti. In qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, potrebbe spuntare un minuscolo giullare coperto di campanelli. E allora, guardandoci dritto negli occhi ci ripeterà le domande: "Chi siamo noi? Da dove veniamo?".
Sapremo noi essere sempre dei minuscoli giullari?

07 novembre 2006

Uno spazio logico di interlocuzione per il dialogo filosofico.

Si tratta di quello spazio interlocutorio comune individuato da Francis Jacques e con il quale dichiara superata, nel processo comunicativo relazionale, ogni lettura atomistica del processo stesso.
Non più una interazione comunicativa come azione (reazione) che passa da un soggetto all'altro. Esiste un sistema di ordine superiore (definito Sigma R) rispetto alla coppia di soggetti in relazione (S1 e S2) per cui il messaggio per il ricevente è contemporaneamente un messaggio per l'emittente.
"Mi dico ciò che ti dico": non si significa senza comprendere.
Si viene in questo modo a stabilire una sorta di spirale comunicativa che è il risultato dell'effetto di perturbazione che avviene quando il soggetto emittente (S1) emette un messaggio di cui il soggetto ricevente (S2) dovrà compensare per ristabilire l'equilibrio.
Si tratta, qui, di una compensazione parziale poichè il soggetto emittente (S1) dovrà comportarsi allo stesso modo nei confronti di ciò che emette il soggetto prima ricevente (S2).
Il soggetto si rende visibile a se stesso nell'allocuzione al tu ed è proprio nello scambio che gli interlocutori si riconoscono in un rapporto di reciprocità.
Questa visione della dinamica relazionale interlocutoria, acquisisce una prospettiva etica attraverso un vero e proprio atto di responsabilità intersoggettiva.
Siamo nell'ambito di un'attività congiunta finalizzata alla costruzione di mondi possibili. Non più nella trasmissione di mondi diversi che devono trovare una mediazione di tipo comunicativo.
Siamo, quindi, nel punto focale del rapporto dialogico della comunicazione interpersonale. Un punto su cui vale la pena concentrarsi, a mio parere, in quanto - forse - qui sta la forza relazionale propria della consulenza filosofica.
(Cfr. sullo spazio interlocutorio comune: Carlo Galimberti From communication to conversation in Ricerche di Psicologia, Milano 1994)

04 novembre 2006

Nulla è statico. Meno che mai il dialogo.

"Quando mi dici qualcosa, io verifico di aver compreso il tuo messaggio ripetendolo con parole mie, perchè se lo ripetessi con le tue parole tu potresti dubitare che io abbia capito. Ma se uso le mie parole il risultato è che cambio il tuo significato, anche se solo di un poco... La conversazione è come giocare a tennis con una palla fatta di gomma semiliquida, che ha una forma diversa ogni volta che attraversa la rete...".
David LODGE Small World

25 ottobre 2006

La filosofia come terapia per la mente. Da: Lino Missio "Io preda del mio sosia" 2005

"Oggi più che nel passato si tende a “patologizzare” ogni forma di comportamento umano che risulti al di fuori dei canoni previsti. Questo atteggiamento ha portato ad una catalogazione di nuove forme patologiche della mente. Le stesse attività svolte dallo psicologo e dallo psichiatra spingono a scorgere segnali di natura psicopatologica in tutti gli atteggiamenti umani.
Questo accade proprio perché è la stessa veste clinica che porta a conclusioni “medicalizzate”.
L’eccessiva osservazione clinica, dunque, ha portato a trascurare la cultura, i costumi, le credenze e i desideri dell’uomo, studiandone il comportamento in termini matematici. Questo atteggiamento scaturisce da una convinzione, del tutto infondata, comune a molti scienziati: quella che le scienze fisiche e matematiche, come hanno avuto successo con lo studio dei fenomeni naturali, possano fare altrettanto con lo studio della psicologia umana.
Il comportamento umano è il risultato di complesse interazioni fra geni, ambiente e cultura, ed è improbabile che la fisica e la matematica possano prevederne e controllarne i cambiamenti.
Utilizzare la filosofia come metodo per la risoluzione dei problemi significa, dunque, considerare sacrosanta la libertà di pensiero e di azione dell’uomo. In questo senso, con la filosofia, si apre uno spiraglio verso la libertà di scelta dell’essere umano. Non tutti i filosofi, però, sono d’accordo sull’utilizzo delle conoscenze filosofiche come rimedio per la soluzione dei disagi dell’uomo. La maggior parte di loro, infatti, crede che la filosofia sia una disciplina esclusivamente accademica e riservata a pochi eletti. È proprio questo pensiero che ha portato le scienze filosofiche a non avere una “vendibilità” in campo lavorativo, al contrario di quello che è accaduto per le scienze mediche, biologiche e fisiche che, soprattutto in questi ultimi cento anni di storia, si sono guadagnate una posizione solida nella nostra realtà lavorativa.
Far accettare la tesi che la filosofia sia importante per la risoluzione dei problemi non è comunque facile. Nei prossimi anni, con gli approfondimenti e i risultati di nuove ricerche nel campo della filosofia, quella pratica, si assisterà ad un radicale cambiamento nel settore della salute mentale, dove quest’affascinante disciplina avrà un suo ampio margine di lavoro. È su queste premesse che molti filosofi oggi portano avanti la consulenza filosofica".

01 settembre 2006

Emersione dall'immanenza.

Nel suo interessante testo Teoria e pratica della consulenza filosofica Peter B. Raabe individua, tra le fasi della pratica, quella che definisce "del trascendimento".
Si tratta di quella fase in cui, dopo aver sviluppato l'anagrafica e aver cercato di intervenire sui problemi più immediati del consultante, il filosofo opera per aiutare lo stesso consultante a separare i leit-motiv emersi dal dialogo dall'immanenza della vita, al fine di considerarli come elementi "altri", riqualificandoli e rivitalizzandoli.
Volendo considerare l'esistente non solo dal suo essere-nel-mondo ma anche nel suo progettare il proprio essere-nel-mondo, ecco che il percorso della consulenza filosofica potrebbe essere quello di portare o ri-portare l'individuo (il consultante) alla sua condizione di persona come essere progettuale, facendolo emergere dall'immanenza (cfr. de Bouvoir), dal flusso irriflessivo della vita umana in cui non si opera la libera scelta per intraprendere progetti (cfr. Grovier), dallo scacco (cfr. Sartre), dall'illusione dell'illimitato esistenziale (cfr. Lacroix).
In sintesi, da quello stato compresso dell'essere nel quale l'esistente è così assorbito nel mondo da rendere quest'ultimo tanto ovvio quanto inosservato nel corso delle attività della propria vita (cfr. Heidegger).

31 luglio 2006

La ragione rivoluzionaria.

Sull'ultimo numero di RESET troviamo un interessante saggio di Ermanno Bencivenga su Anselmo d'Aosta nel quale, partendo dal "credo ut intelligam", il filosofo centra l'attenzione sulla rivoluzionarietà della ragione.
Il procedere logico della ragione è un'operazione rivoluzionaria.
Il "credo ut intelligam" di Anselmo si riflette nella logica kantiana del ricercare la possibilità di ciò che sentiamo, di ciò che pratichiamo.
La logica ha una sua anima sovversiva in quanto, volendo stabilire un'argomentazione logica perfettamente cogente, ci si interroga su tutti i possibili errori che sono celati dietro ogni possibile passo.
Tale operazione, secondo Bencivenga, è quella che fanno i bambini che - con spirito insieme logico e filosofico - trovano il punto debole delle argomentazioni che vengono loro proposte fino a che l'adulto non si stanca e chiude il discorso dicendo "così è, e basta!".
Nell'epoca contemporanea, in cui i sistemi di conoscenza e di informazione sociale si comportano come adulti stanchi, l'essere umano deve tornare a comportarsi come un bambino che cerca i punti deboli di quanto trova di fronte a sè e di quanto sta dentro di sè.
Solo così, decostruendo secondo ragione, l'essere umano può riposizionarsi (o posizionarsi) attivamente nel mondo.

22 febbraio 2006

Avere una concezione del mondo?

Uno dei temi importanti della pratica filosofica è consentire la rielaborazione della propria concezione del mondo.
Già...
Ma a ben pensarci, taluni gruppi di persone sembrano non essersi mai costruiti una loro concezione del mondo. Per costoro è, dunque, difficile "rielaborarla".
Questi individui, questi gruppi, non hanno mai affrontato il problema della conoscenza della realtà in cui vivono, non si sono mai posti le domande fondamentali dell'uomo.
Si limitano - invece - a cercare informazioni su ambiti parziali della realtà e dell'esistenza.
Non affrontano il percorso (duro ma essenziale) di ricerca - selezione - riflessione - organizzazione - costruzione.
Si limitano al "rinvenimento".