07 novembre 2008

Come possiamo esistere?

Piazza Vittorio Veneto a Torino, la città dove più forte si sente la crisi economica, e di conseguenza sociale, che da tempo attanaglia le nazioni, senza escludere (anzi!) l'Italia.
Torino della Motorola che lascia da un giorno all'altro e chiude il Centro Ricerche dopo aver intascato milioni di Euro per insediarvisi; Torino della cassa integrazione Fiat; Torino della Dayco; Torino della crescente povertà di quelle classi che fino a qualche anno fa si sentivano privilegiate perchè, se non altro, qualcuno in famiglia aveva un posto fisso.
In Piazza Vittorio Veneto è apparsa, come un miraggio, una struttura espositiva che si presenta con l'immagine che ho fotografato. Una Compagnia di Crociere che invita il pubblico:
"Regalati il Lusso" urla con, a fianco dell'headline, l'immagine di un diamante.
Forse quel diamante vuole ricordare uno dei tanti gioielli che sono finiti ultimamente al Monte di Pietà!!!
Al di là di scontate riflessioni circa l'opportunità di una tale comunicazione nel pieno centro di Torino, nel luogo dove tutti i torinesi (sicuramente quelli che non possono permettersi - più - week end in montagna o al mare) passano nella loro passeggiata, che lascio al buon senso di chi ha pensato a una tale campagna di comunicazione; la mia riflessione si situa all'interno di quanto scritto ultimamente in questo blog.
Il costruire la propria esistenza su miti, mode e stereotipi porta inevitabilmente a creare un distacco tra il proprio esistere nella realtà e il fantomatico voler esistere nell'irrealtà o, meglio, in un irreale che si pretende reale.
Mentre dal punto di vista dell'impresa che con così tanta sfacciataggine comunica il lusso, un tale messaggio rischia di portare un notevole danno di immagine; dal punto di vista dell'individuo, ogni passo indietro rispetto a ciò che si vorrebbe essere - perchè questo è il mito - costituisce una fase di distruzione dell'essere nel suo esistere consapevole.
Un senso di insuccesso, se non di scacco, che porta - perchè non esistenzialmente caratterizzato - a varie forme di angoscia.
Il moderno capitalismo, fondato sul nulla finanziario, ha mostrato in questo periodo la fallacia del voler essere senza poter essere. Ha dimostrato come esso (appunto quello che chiamo moderno) usi gli individui per raggiungere i suoi scopi a scapito degli individui stessi.
La fenomenicità dell'esistente si scontra con la realtà dell'esistenza. Il costituire il proprio essere sul dato subìto della realtà che ci circonda porta inevitabilmente, soprattutto in questa fase storica, alla disillusione, al senso dell'insuccesso.
Se non riesci a realizzarti nella vita, sposa un uomo ricco, ha detto qualcuno. Così ti porterà in crociera nel lusso.
Se non ce la fai, ti dovrai far bastare l'andare a vedere a Torino, in Piazza Vittorio Veneto, cos'è un lusso che non ti puoi regalare.
Forse è sempre più urgente ricostruire un senso dell'esistenza che possa essere arma e scudo per la vita dell'esistente e che non lo lasci in balia degli uragani ma che consenta al suo essere di dominare l'esistente.

10 ottobre 2008

Bauman e gli schiavi della carta di credito.

Zygmunt Bauman, sociologo e teorizzatore della società liquida, scrive su La Repubblica dell'8 ottobre (pag. 7) un articolo dedicato al nostro modo di vita e al disastro finanziario globale di questo periodo.
La sociologia, di solito, si limita a trasferire in bel linguaggio quello che è il "risaputo", quello che la "signora Maria" o il "signor Rossi" ormai da tempo danno per scontato.
Talvolta, però, sempre la sociologia, giunge a conclusioni di grande interesse.
L'articolo di Bauman non dice niente di nuovo, siamo onesti. Tuttavia giunge a una conclusione tanto acuta quanto triste.
La riporto tale e quale per non perdere nulla del senso delle parole:
"... Quello che si dimentica allegramente (e stoltamente) in quest'occasione è che l'uomo soffre a seconda di come vive. Le radici del dolore oggi lamentato, al pari delle radici di ogni male sociale, sono profondamente insite nel nostro modo di vivere: dipendono dalla nostra abitudine accuratamente coltivata e ormai profondamente radicata di ricorrere al credito al consumo ogni volta che si affronta un problema o si deve superare una difficoltà. Vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe, e decenni di abbondante disponibilità di una droga non possono che portare a uno shock e a un trauma quando la disponibilità cessa. Oggi ci viene proposta una via d'uscita apperentemente semplice dallo shock che affligge sia i tossicodipendenti che gli spacciatori: riprendere (con un'auspicabile regolarità) la fornitura di droga.
Andare alle radici del problema non significa risolverlo all'istante. E' però l'unica soluzione che possa rivelarsi adeguata all'enormità del problema e a sopravvivere alle intense, seppur relativamente brevi, sofferenze delle crisi di astinenza".
Tutto molto giusto. Siamo come drogati del credito al consumo che devono continuare a "nutrirsi" di esso. Ma perchè dobbiamo continuare? Perchè se no i sistemi finanziari crollano.
Quindi siamo come drogati che invece di avere una prospettiva di uscita o di riduzione di consumo, in una visione estrema, vedono la polizia fornire la droga agli spacciatori perchè, loro, non ne hanno più. E se non ci fossero più gli spacciatori, non ci sarebbero più i poliziotti.
Aiuto.................

26 settembre 2008

La fabbrica della paura.

Voglio inoltrarmi in un tema che non è strettamente connesso al mio blog ma che molto ha a che fare con la percezione della realtà che tutti i giorni sperimentiamo e con i messaggi che si cerca, in varie situazioni, di far passare.
Ieri sera capito per caso sulla trasmissione Otto e mezzo in onda su La7 alle 20,30 e condotta quest'anno da Lilli Gruber.
Il tema della serata era la "paura". Tema che nasceva dalla pubblicazione dei dati Censis sulla paura percepita dai cittadini con particolare riferimento ai cittadini di Roma.
Un argomento stuzzicante per sviscerare il quale sono stati invitati Annamaria Testa (pubblicitaria e docente non so di cosa alla Bocconi), il prof. Boncinelli (genetista del San Raffaele di Milano) e il Ministro La Russa.
Al di là di un modestissimo appunto circa la debolezza della gestione del programma, tutt'altra cosa rispetto a quando il conduttore principe era Giuliano Ferrara, mi sono sentito precipitato in una trappola buonista in cui l'unico che manteneva salda la rotta, e la dignità, era il Prof. Boncinelli.
Due argomenti mi hanno veramente scandalizzato, anche perchè fortemente falsi.
Il primo, portato da Annamaria Testa: la pubblicità non gioca i suoi messaggi sulla paura ma promette qualcosa di migliore che risponde a bisogni definiti.
Ma come?!?! Basta guardare una normale serie di spot pubblicitari per accorgersi di come la paura sia la padrona.
Dietro una crema antirughe c'è la paura di invecchiare, dietro un chewing gum senza zucchero c'è la paura del dentista (dolore e costo) e del giro vita, dietro una macchina con 6 airbag c'è la paura dell'incidente, dietro un salvalavita c'è la paura di non essere soccorsi, e via dicendo.
Come si fa a dire che la pubblicità non gioca sulla paura quando essa è la motivazione più o meno inconscia che determina la strategia comunicativa della maggior parte della pubblicità in visione! Certamente, non c'è solo la paura. Ci sono altre leve psicologiche, anche piacevoli. Ma non si può dire che la paura non sia una leva psicologica del messaggio pubblicitario.
Nella trasmissione si sono susseguiti un bel po' di luoghi comuni tesi forse ad addormentare un tema scabroso ma nessuno che si sia spinto a domandarsi come la paura giochi un ruolo fondamentale nella formazione della visione del mondo degli individui e come essa, ormai, si qualifichi non più solo come paura-di-qualcosa ma come paura-di-tutto senza che l'individuo sia in grado di determinare cosa sia veramente questo tutto, finendo in stati di angoscia permanente che esplodono nel momento in cui una delle paure si svela nella sua particolarità e si determina come, ormai, inaffrontabile. Rileggiamo i libri, i romanzi, i testi teatrali di Jean-Paul Sartre e scopriamoci lì dentro, ne La Nausea, nei Sequestrati di Altona, ne Il diavolo e il Buon Dio, in Nekrassov...
Finchè, sempre, nella trasmissione televisiva, si arriva a proporre che gli individui hanno paura di ciò che non conoscono e questo è determinato da ignoranza. Il buon Professor Boncinelli, l'unico a quel punto a cercare di dire cose sensate visto che nessuno gli aveva ancora dato la possibilità di spiegare, e spiegarsi, cosa ci facesse lui - genetista - lì a parlare di paura, proponeva il tema dell'analfabetismo di ritorno.
E a questo punto, apriti cielo!, Gruber e Testa da sinistra e La Russa da destra a dire che non si può parlare di analfabetismo in un Paese come l'Italia che dal primo dopoguerra ha fatto passi da gigante per combattere l'analfabetismo, per portare l'istruzione a tutti i livelli della società, ecc..
Ma il povero Boncinelli non parlava della mancanza di istruzione! Parlava di analfabetismo di ritorno; di quel fenomeno, cioè, per cui grazie alla televisione non si è capaci di concentrarsi per più di 5 minuti di fila; per cui si legge una pagina di un libro o un capitolo e non si è più capaci di sintetizzare ciò che si è letto; per cui non si è più capaci di scrivere in buon italiano perchè lo abbiamo disimparato a favore dell'sms-linguaggio (paradigmatico il caso del professore a ingegneria che scrive "che" alla maniera dell'sms, cioè "ke" e sostiene che quello è il modo giusto).
L'analfabetismo di ritorno è quello stato per cui non si riflette più su quello che si vede e che si legge ma lo si assorbe acriticamente. Non è il non saper leggere o scrivere!
Non riuscivo a capacitarmi della situazione ma poi ho pensato che ognuno di loro aveva qualcosa da paludare: la pubblicità studiata per trattare il consumatore da idiota, la televisione spazzatura, il fulgido ventennio, la sinistra del "tutti promossi", ecc. Solo Boncinelli voleva e doveva mantenere rispetto per se stesso e per la scienza che rappresenta.
Il tutto intervallato dalla frasetta ben imparata da quella grande professionista che è Lilli Gruber: "la risposta ce la darà...dopo la pubblicità!".
...e al colmo della mia perplessità, in perfetto orario - alle 21,10 - ogni discussione veniva interrotta per la programmazione del telefilm serale.

22 settembre 2008

Altri interventi, anche di striscio, sulla Consulenza Filosofica.

Proseguo nell'informazione sulla consulenza filosofica, inserendo un articolo di Nicla Vassallo apparso sul Domenicale de Il Sole - 24 Ore e diffuso anche dal sito Rescogitans.it.
In questo articolo sulla pop-filosofia Nicla Vassallo tocca il tema della Consulenza Filosofica in maniera abbastanza "definitiva".
A voi la lettura.
Sopravvivere al pop pensiero (Il Sole 24 Ore - 29 giugno 2008)
" Guardare o non guardare “Lost”, “24”, “C.S.I.”, e quant’altro? Seguo alcune serie, lo confesso, specie “Damages” per la superba Glenn Close, ma anche per dissipare tristezze e deliri filosofici, così come David Hume giocava a tric-trac, mentre Ludwig Wittgenstein leggeva “crimes fiction”. Non so come loro avrebbero giudicato tomi di filosofia del tric-trac, di filosofia dei polizieschi, o quelli che oggi impazzano sulle serie televisive; io non esiterei a classificarli tra i volumi dozzinali che consegnano il discorso filosofico alle perversioni di un mercato editoriale ove il profitto a qualunque costo ha spesso il sopravvento sull’eleganza e la ricercatezza della qualità.
A fiutare il business sono state per prime le case editrici straniere (quelle italiane non fanno altro che seguire a ruota) con i loro tanti, troppi titoli che estendono la filosofia a qualsiasi “prodotto” di successo; per esempio, la collana “Popular Culture and Philosophy Series” della Open Court ha già trattato di Signore degli anelli, baseball, Sopranos, Harry Potter, Supereroi, dieta Atkins, Bob Dylan, Harley-Davidson, poker, U2, James Bond, Quentin Tarantino, iPod, e via dicendo. Sarò anche una cassandra, ma questa filosofia da discount non potrà che riciclarsi, ricalcando e ricopiando se stessa – del resto, il plagio è stato recentemente sdoganato dagli atti disdicevoli – e non mi stupirò se giungerà a dare il meglio di sé, puntando su titoli come “L’etica di Paris Hilton”, “L’estetica di David Bechkam”, “La metafisica di Nintendo”.
Dubito del fatto che questi volumi abbiano qualche chance di rappresentare reali divertissement (lo sguardo di Glenn Close non ci può certo venire restituito da un filosofo maldestro), così come del fatto che siano buone opere divulgative. In realtà, risultano spesso incapaci di semplificare il discorso filosofico, e a volte cadono, anzi, in quella che Thomas Hobbes chiamava la «maniera di parlare scolastica: l’intelletto intende, la vista vede, la volontà vuole; e, per una giusta analogia, la passeggiata, o almeno la facoltà di passeggiare, passeggerà». Per di più, al fine di rendere davvero comprensibile la filosofia al grande pubblico, occorre una solida competenza filosofica, oltre che un certo talento, e «voler pensare è una cosa; aver talento per pensare, un’altra», preciserebbe Wittgenstein.
Rendere chiare le argomentazioni complesse e le analisi sottili non deve significare appiattire la filosofia su Harry Potter o Paris Hilton. Però perché non consacrare l’uno e l’altra a modelli di vita cui ispirarsi? Già, non manca neanche la filosofia che impartisce qualche suggerimento, più o meno assennato, su come vivere, finge che ci sia una “fazione” (morale, politica, religiosa) avversa, dà l’impressione di elargire saggezze. Magari di vera filosofia non si tratta, eppure ha ormai invaso gli scaffali delle nostre librerie, dove troviamo persino una collana in cui a consigliarci sul “saper vivere” sono alcuni cosiddetti consulenti filosofici – figure raccapriccianti per chi crede che la filosofia sia innanzitutto analisi concettuale, esperimenti mentali, ragionamento rigoroso. «Logica ed etica sono sostanzialmente la stessa cosa: un dovere verso se stessi», diceva Otto Weininger, ma in pochi lo vogliono ricordare.
Non c’è forse bisogno di sfuggire alla propria quotidianità con la filosofia delle diete, delle serie tv, dei supereroi, delle ereditiere? Di riflettere su cosa si guarda, si legge, si copia, così come su se stessi? Di capire se vivere bene sia una questione di scelta, di opportunità, di moda? Cosa dobbiamo mettere al centro della nostra vita? Quali sono le nostre priorità? Serie televisive, incantesimi, pettegolezzi, dottrine pedestri, oppure felicità, moralità, fede (agnosticismo, ateismo), famiglia, edonismo, realizzazione di sé? Cos’altro? Caviale e champagne forse guastano? D’accordo, c’è caviale e caviale, quello del discount e quello reale dell’almas beluga – ad alcuni palati si addice l’uno, mentre ad alcuni palati l’altro. Parallelamente, ci sono libri di filosofia e libri di filosofia, una cosa sono quelli “pop” (da “popular”), ben altra i classici – ad alcuni cervelli si addicono i primi, mentre ad alcuni cervelli i secondi.
Tuttavia, non voglio negare che nel variopinto universo della filosofia pop ci siano voci più oneste di altre. “The Weight of Things. Philosophy and Good Life” (Blackwell, Oxford, pp. 177, £. 9.99), per esempio, è un volume non saccente, argomentato con poca retorica altisonante, corredato di una nutrita bibliografia, che tenta di rispondere a domande – mi pare che l’autrice, Jean Kazez, faccia poco per nasconderlo – sul significato della propria specifica vita, e non sul significato della vita. Aristotele, Buddismo, Dio, cristianità, famiglia, felicità, fortuna, moralità, morte, necessità, Platone, religione, stoicismo (l’epicureismo viene liquidato in poche righe), Tolstoj (con la sua crisi mistico-esistenziale e la sua cosiddetta conversione), utilitarismo sono i temi su cui Kazez si sofferma di più – un bel pot-pourrì.
Amante sfrenato della tuttologia e conseguentemente della grossolanità, il lettore di pop non farà del resto troppo caso ai “dettagli”: al fatto, per esempio, che al problema della conoscenza venga dedicata solo qualche misera paginetta. Eppure, se avesse torto Aristotele a sostenere che noi esseri umani aspiriamo per natura alla conoscenza, che senso avrebbe cercare (di conoscere) il significato della vita, sia che con esso s’intenda il significato della nostra particolare vita, o di qualsiasi altra vita? Ma il lettore di pop è già sotto l’ombrellone di una spiaggia affollata, sta leggendo un libro pop e non deve concentrarsi: chissà se ha colto il significato della domanda. Io, invece, lontana dalle fiumane estive, per divertissement ascolto Marin Marais – di cui la filosofia pop non si occuperà probabilmente mai – e sul divertissement dissento da Blaise Pascal".

01 settembre 2008

Consulenza filosofica e albo professionale.

Chi mi conosce sa perfettamente quanto io sia un avversario di tutti gli albi professionali a cui preferisco un sistema associativo di garanzia (soprattutto di coloro che alle professioni si rivolgono) che non vada a costituire un sistema di protezione corporativo e al di là di ogni messa in discussione, di ogni regola di mercato e di ogni giudizio di efficacia.
Insomma, non amo gli ordini protetti.
Per questo riporto il testo di "Filosofia minima" di Armando Massarenti sull'inserto domenicale de Il Solo - 24 Ore del 24 agosto scorso.
Mi piacerebbe che coloro che come me si cimentano con la filosofia e con la consulenza filosofica o, che dir si voglia, con le pratiche filosofiche, con la filosofia applicata, esprimessero la loro opinione su quella che definisco la provocazione di Massarenti e sul generale tema, appunto, della consulenza filosofica.
Ecco il testo dell'articolo.
Tutti iscritti all'albo dei pensatori
"Sul sito dell'Istituto Bruno Leoni, Silvio Boccalatte commenta «Il meglio del peggio delle proposte di legge in discussione», un bilancio dei primi cento giorni di attività del Parlamento visti da una prospettiva liberale. Si parla anche di un progetto intitolato «Norme relative alla professione del consulente fllosofico e istituzione del relativo albo professionale». L' Italia è il Paese più ricco al mondo di albi e ordini, senza che «ciò produca alcun beneficio per la qualità dell'esercizio delle professioni». La consulenza filosofica farà eccezione? «Sono quasi tremila anni che il mondo della filosofia si sviluppa con insopportabile anarchia - ironizza giustamente Boccalatte -, producendo idee nocive per il bene pubblico. Una società moderna e postindustriale non può tollerare che una persona, non debitamente formata e sottoposta a certificazione statale, instilli convinzioni errate nelle menti del liberi cittadini». Seguono esempi paradossali di consulenti che hanno impartito lezioni assai dubbie. Aristotele con Alessandro Magno e Seneca con Nerone, sono stati dei consulenti efficaci? Se un ente pubblico avesse certificato la loro professionalità, forse I'umanità avrebbe evitato crimini e guerre!
Ma c'è anche un altro motivo per essere scettici sull'utilità di un tale albo e riguarda la natura stessa della consulenza filosofica. I suoi cultori insistono sul suo aspetto dialogico: «il consulente prende parte alia ricerca alla pari del consultante, ovvero egli stesso, nel dialogo, mette alla prova le sue idee, le sue teorie - e pertanto non ha nulla da "insegnare" al consultante, che si limita ad accompagnare nell' esplorazione della sua visione del mondo». La consulenza filosofica va dunque distinta dal «counseling filosofico» perche quest' ultimo, anche se suona quasi uguale, «fa uso di tecniche psicologiche di ascolto e di comunicazione, ovvero opera strumentalmente sul consultante». Dunque sarebbe più plausibile un albo del «counseling filosofico» (previsto infatti in alcuni Paesi) e non della consulenza filosofica. Se però il legislatore volesse persistere sulla sua strada rimarrebbe ancora una cosa da fare: iscrivere d'ufficio non solo i consulenti, ma anche tutti coloro che si rivolgono alla consulenza e, perchè no, anche tutti coloro che amano ragionare in proprio. Una tecnica inflazionistica per dimostrare due cose: che siamo tutti un po' filosofi e quanto è inutile l'albo".

08 luglio 2008

Un anno dopo

Ho abbandonato il mio blog un anno fa e lo riprendo oggi con rinnovato vigore.
A volte è necessario riflettere prima di dare in pasto alla rete i propri pensieri ma, soprattutto, è necessario definire il taglio di un blog che non rappresenta la necessità di esprimere se stessi in un mondo espanso quanto l'ambizione di diffondere le riflessioni filosofiche che nascono dal variegato e liquido mondo della ricerca filosofica, della filosofia applicata, delle neuroscienze, della psicologia.
Voglio riprendere il mio viaggio usando quanto scritto da Richard Dawkins ne Il cappellano del Diavolo (ed. Cortina 2004):
"Le verità che riguardano la vita quotidiana sono esposte al dubbio filosofico tanto quanto - o poco quanto - le verità scientifiche. (...)
La Legge di Dawkins della Conservazione della Difficoltà enuncia che l'oscurantismo in una materia accademica si espande fino a riempire il vuoto della sua intrinseca semplicità. (...)
Vogliono passare per profondi, ma la loro materia, in realtà, è piuttosto semplice e superficiale, sicchè devono gonfiare il linguaggio per ricomporre l'equilibrio".
Evitiamo di usare l'oscurità del linguaggio per tentare di sopperire all'assenza di concetti.
Il primo compito di un filosofo, di uno scienziato, di un intellettuale è quello di rendere comprensibile il proprio pensiero o i risultati della propria ricerca.
Così, c'è chi non ci riesce ma c'è anche chi non può riuscirci perchè non c'è nulla da rendere comprensibile.
La stessa cosa vale per l'argomentazione delle proprie tesi o delle proprie analisi. La filosofia non procede per dimostrazioni ma necessita dell'argomentazione per sostenere il proprio lavoro.
Niente da dire sui filosofi che limitano la propria opera alla riflessione ma, a mio parere, laddove si lavora sull'esistenza, cioè laddove più vicini si è all'umano esistente, il discorso filosofico dovrebbe - nella fase costruttiva - essere argomentato. Non fosse altro che per giocare ad armi pari con l'analisi scientifica delle modalità d'esistenza.